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The Money and Finance Research (Mo.Fi.R.) group was established in 2007 on the initiative of Pietro Alessandrini, Michele Fratianni and Alberto Zazzaro. The aim of the group is investigating, from both the empirical and theoretical points of view, the evolution of the financial system as the collection of financial institutions, intermediaries and markets and understanding the real consequences of that evolution for the development of the economic system at the regional, national and international levels. This mission is fulfilled through a variety of activities, including sponsored research, seminars, conferences carried out by a bulk of economists from the Department of Economics of the Università Politecnica delle Marche in cooperation with researchers from other universities, post-doc research fellows, PhD students and graduate students.

mercoledì 19 ottobre 2011

Tavola rotonda su "Conviene all’Europa salvare la Grecia?", l'intervento di Luca Papi


La crisi greca è analizzabile per i suoi risvolti interni (cosa è meglio fare per far riprendere l’economia greca) e per i suoi risvolti sulle economie del resto d’Europa. Due problemi che sono tra loro collegati, ma che possono essere distinti. Mi soffermerò sul secondo aspetto

Nonostante la Grecia abbia un debito pari al 4% del debito dell’eurozona, la crisi greca ha preparato il terreno per l’emergere di una crisi di fiducia sui debiti sovrani e sulle banche di altri grandi paesi. Il contagio è già stato tale che la priorità attuale è evitare che questa crisi di fiducia si deteriori ulteriormente e provochi conseguenze molto negative sull’intero sistema finanziario europeo e non solo.

Ma come opera una crisi di fiducia?  Tutti gli operatori che si trovano ad avere passività a breve e attività a lunga sono potenzialmente bersaglio di una crisi di liquidità se per una qualche ragione i detentori di quelle passività perdono fiducia e cercano di sbarazzarsene. Questo vale per le banche, (ed è cosa nota) ma questa crisi ha mostrato che può essere vero anche per i governi che hanno attività a lunga (la loro capacità impositiva che per realizzarsi richiede tempo) e passività più a breve nel senso che gli investitori possono vendere i titoli pubblici sul mercato secondario o rifiutarsi di comprarli su quello primario.

È per questo motivo che le banche hanno accesso al credito di ultima istanza in caso di illiquidità (e il sostegno, lo si è visto nel caso degli ultimi anni, può essere massiccio quando le patologie hanno avuto caratteri sistemici). In un mondo normale anche le autorità pubbliche hanno rimedi per contrastare una situazione di illiquidità perché possono anche esse contare sull’intervento della banca centrale.

L’aspetto caratterizzante dell’eurozona che è emerso da questa crisi è che i paesi hanno perso il loro ricorso potenziale alle banche centrali nazionali (che avevano il monopolio della valuta nazionale) e non lo hanno sostituito con un meccanismo analogo che potrebbe funzionare come una sorta di credito di ultima istanza sistemica nei confronti dei debiti pubblici nazionali (quando minacciati da illiquidità).

E questa peculiarità della costruzione istituzionale europea caratterizza principalmente l’attuale difficoltà della situazione europea.

Le conseguenze della crisi sui debiti sovrani si combinano con una potenziale difficoltà delle banche che sono a leva eccessiva e con esposizioni significative ed anch’esse eccessive sui debiti sovrani europei.

I problemi europei sono apparsi, e in alcuni casi si sono acuiti, con la crisi del 2007 quando alcune banche sono state salvate trasformando un problema di crisi bancarie  in uno di debiti sovrani che ora si sta ripercuotendo di nuovo sulle banche (e sull’economia) in una sorta di circolo vizioso. Il problema è che ora le economie, i mercati e certamente alcuni governi sono in una situazione di maggiore difficoltà se dovessero intervenire a sostegno delle banche.

Ci sono così banche e stati in situazione di difficoltà e risolvendo i problemi del rischio sovrano (ora la causa principale e il problema impellente della crisi)  dovrebbero per gran parte risolversi anche quello delle banche (il sintomo della crisi). E infine, ma non meno importante, l’instabilità e l’incertezza del settore bancario trasmettono le difficoltà dei debiti sovrani al settore reale. L’incertezza sullo stato di salute delle banche rende più difficile e costosa la loro raccolta di fondi sui mercati, e a loro volta queste difficoltà e questi maggiori costi si trasmettono sulla disponibilità e sul costo del credito all’economia alimentando una spirale recessiva nel settore reale.

Le difficoltà degli stati vanno qualificate in termini di effettiva insolvenza e di potenziale illiquidità. E qui sta forse una delle principali difficoltà e divergenze di opinione. In altri termini, hanno ragione i mercati che valutano e prezzano così negativamente lo stato di salute di certi paesi, o le condizioni delle economie nazionali e delle rispettive finanze pubbliche sono invece più sostenibili e meno preoccupanti?

Al di là di come si compongono i gruppi dei paesi insolventi e di quelli potenzialmente illiquidi per sfiducia di mercati, è chiaro che per i primi (o per il primo essendo tutti quasi gli analisti concordi nel ritenere che la sola Grecia si trova in una situazione di pressoché insolvenza) la soluzione preferibile è una ristrutturazione guidata e ordinata. L’alternativa di finanziamenti esterni in attesa di un riequilibrio delle finanze pubbliche greche si scontrerebbe con dimensioni di avanzi primari che dovrebbero essere una funzione crescente dello stock di debito pubblico che ne minerebbe la fattibilità e la credibilità.
Rimane quindi la strada della ristrutturazione del debito (e va chiarito come realizzarla in termini di haircut, nuove scadenze e nuovi tassi) che, a causa degli stretti legami finanziari tra paesi, richiede però una preventiva messa in sicurezza delle banche interessate dalla ristrutturazione del debito greco. Una situazione quasi ironica e paradossale dove alle banche si riconosce l’insufficienza di capitale nei confronti di un asset (i debiti sovrani) per il quale la stessa regolamentazione non richiede alcun capitale. Peraltro se al momento la questione della ricapitalizzazione sembra essere presente nella gran parte delle dichiarazioni dei governanti europei, e non solo del FMI, non è ancora chiaro come questa ricapitalizzazione dovrebbe realizzarsi e ad opera di quali capitali.

Per i paesi bersaglio della crisi di fiducia (chiamiamoli i “vulnerabili”) ci sono cinque  possibili soluzioni (o combinazioni delle stesse):
  • Interventi della banca centrale europea
  • Interventi del Fondo salva stati
  • Interventi dei governi che possono ancora intervenire a sostegno di quelli in difficoltà (dimenticando la cosiddetta no bail-out clause Art. 103) (quello che chiede almeno sostanzialmente la BCE (Trichet lo ha ribadito nella sua ultima conferenza stampa)
  • Emissione di eurobonds (sostituzione di una parte dei debiti nazionali con debiti dell’eurozona)
  • Interventi del FMI

Tra queste cinque ipotesi è preferibile per varie ragioni la prima. Non solo per la celerità, per i minori problemi politici, ma soprattutto perché gli interventi della banca centrale hanno il vantaggio delle maggiore credibilità dovuta alla illimitata potenzialità derivante dal monopolio di creare liquidità. Forte di questa caratteristica esclusiva delle banche centrali con propria moneta, la BCE potrebbe ad esempio garantire o impegnarsi nei confronti del rinnovo dei debiti in scadenza. Similmente a quanto fatto in occasione della crisi bancaria nel 2008 quando l’annuncio da parte di alcuni paesi di garantire il 100 per cento dei depositi arginò la crisi. Il solo annuncio potrebbe bloccare la crisi di fiducia e evitare anche che si rendano necessari interventi effettivi sui mercati da parte della BCE

Il fondo salva stati così come è attualmente congegnato assolve solo parzialmente a questo ruolo di pompiere della crisi di illiquidità non avendo le risorse sufficienti per una crisi di grandi dimensioni. Ecco perché è importante creare un legame con la BCE, l’unica istituzione che ha potenza di fuoco illimitata e che è l’unica che può calmare le preoccupazioni e le incertezze della crisi di fiducia nei debiti dell’eurozona.

I dettagli istituzionali e le forme tecniche vanno studiati ma sono un problema di secondaria importanza se c’è la volontà di andare in questa direzione. È chiaro che questo richiede il consenso dei principali paesi europei e della BCE  che però continua - forse in un gioco di posizione con i governi per difendere la sua autonomia e per responsabilizzarli - a dichiararsi contraria all’utilizzo della Banca stessa per aumentare le risorse del Fondo salva stati attraverso la leva finanziaria  (parole di Trichet  nella sua ultima conferenza stampa)

Tutto questo per risolvere temporaneamente la fase acuta della crisi di sfiducia e il problema degli attacchi dei mercati al debito dei paesi solvibili, ma potenzialmente illiquidi

In realtà questa crisi non è solo una crisi di fiducia, ma è una perturbazione molto più complessa. Del resto la complessità non dovrebbe stupire visto che si riferisce ad uno dei progetti di integrazione economico-politica più ambiziosi che la storia abbia mai registrato. E sostanzialmente si tratta di una duplice crisi, ovvero finanziaria (che ha a che fare con i limiti della regolamentazione finanziaria e con la gestione degli squilibri dei grandi stock accumulati) e reale (che ha a che fare con gli squilibri dei flussi fiscali e di parte corrente)

Questi problemi diventano ancora più severi e difficili da trattare se ci si trova - come oggi ci troviamo - in una fase transitoria dell’integrazione europea, ovvero in una sorta di interregno dal punto di vista istituzionale e politico.

A questo punto due percorsi si presentano come possibili:
  • si accelera verso una maggiore integrazione politico-istituzionale che potrà contribuire ad alleviare i problemi delle singole aree dell’Europa (trasferimenti pubblici, nuove regole e nuovi vincoli). Ma questo richiede un consenso politico legittimato da un  processo democratico e paradossalmente la crisi se, da un lato, ha evidenziato la necessità di una maggiore coesione politica, dall’altro ha probabilmente comportato maggiori difficoltà a far accettare tra il pubblico questa direzione di marcia (conseguentemente servirebbero politici illuminati e coraggiosi che spieghino alla base elettorale la strada da seguire)
  • se invece ci si attarda nella transizione si rimane nel territorio attuale dell’agonia dell’interregno. In questo caso si complicheranno i nodi e i problemi, si accentueranno le distanze tra i paesi  perché si è visto che gli aggiustamenti e le dinamiche in corso ci hanno allontanato dai requisiti che un’area dovrebbe avere per essere considerata un’area valutaria ottimale. Oggi siamo forse più lontani di qualche anno fa perché gli squilibri macroeconomici all’interno dell’area si sono accresciuti (deficit di parte corrente, dinamiche inflazionistiche perverse, perdite di competitività e CLUP divergenti…). E nell’interregno anche la solidarietà internazionale verso i ritardatari risulta meno disponibile.

Rimane aperta l’opzione carsica dell’abbandono dell’euro. Ma è  un’opzione realistica? Tutto è possibile, ma non ci sono molti precedenti nella storia dei paesi (ci sono precedenti di un cambio della moneta verso una moneta più forte e il caso dell’abbandono dei cambi fissi o di un currency board, ma non dell’adozione di una valuta allo stesso tempo nuova e più debole).  Si tratta quindi di fare un’analisi costi e benefici di un caso che non ha precedenti esperienze nella storia economica; i benefici sono più facili da individuare, ma i costi sono difficili da quantificare. E comunque una volta stimati andrebbero confrontati con il livello e i tempi del caso alternativo (l’agonia dell’interregno).

Ma la risposta, la si può immaginare, è che i costi e i rischi sono comunque così elevati da renderli non confrontabili con i costi comunque pesanti dell’agonia dell’interregno. Peraltro nel caso di abbandono della moneta comune i costi si manifesterebbero con devastante irruenza e concentrati nell’immediato, mentre nel caso dell’agonia dell’interregno sarebbero spalmati e graduali seppure crescenti.

È quindi sulla durata dell’interregno (e sulla riforma della regolamentazione finanziaria, argomento che ora non possiamo trattare, ma che rappresenta un nodo gordiano da affrontare con urgenza) che si deve lavorare per andare più rapidamente verso l’integrazione politico-istituzionale. Del resto era proprio questo il vero spirito della sequenza del progetto europeo (prima l’unione monetaria per poi spingere e anticipare l’unione politica, obiettivo ultimo dell’intero progetto) e di tanti europeisti (da ultimo gli stessi industriali di Germania, Francia e Italia che hanno firmato un appello per una più stretta integrazione pubblicato lo scorso 8 ottobre).

E i tempi si possono accorciare realizzando la riduzione degli squilibri, riducendo gli stock, liberando risorse per quelle riforme strutturali attraverso le quali, da un lato, si promuove la competitività dei paesi e dall’altro si costruisce la credibilità che serve per avere quel riconoscimento internazionale, che rappresenta uno dei requisiti per far accettare ai partner più virtuosi il progetto dell’unione politica tra i diversi paesi europei.

Luca Papi - Università Politecnica delle Marche

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