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The Money and Finance Research (Mo.Fi.R.) group was established in 2007 on the initiative of Pietro Alessandrini, Michele Fratianni and Alberto Zazzaro. The aim of the group is investigating, from both the empirical and theoretical points of view, the evolution of the financial system as the collection of financial institutions, intermediaries and markets and understanding the real consequences of that evolution for the development of the economic system at the regional, national and international levels. This mission is fulfilled through a variety of activities, including sponsored research, seminars, conferences carried out by a bulk of economists from the Department of Economics of the Università Politecnica delle Marche in cooperation with researchers from other universities, post-doc research fellows, PhD students and graduate students.

martedì 25 ottobre 2011

E' ora di consolidare il debito pubblico: ecco i vantaggi dell'allungamento dei titoli di Stato

La conversione forzosa dei titoli di Stato a breve in Btp decennali liberebbe il Tesoro dall'affanno delle scadenze e abbasserebbe il costo del debito quasi a zero. E inoltre: restringerebbe la spesa pubblica, ridurrebbe lo spread e non danneggerebbe le banche. Ma l'operazione non è a costo zero: però le alternative sono impossibili o molto più onerose.

Mentre i nostri politici stanno cercando la soluzione meno indolore per risolvere la crisi del debito sovrano, vale la pena ricordare quello che avvenne nel 1926. L’Italia era uscita dalla prima guerra mondiale con un enorme debito pubblico che, agli inizi degli anni Venti, oltrepassava il 120 percento del prodotto lordo interno che oggi è oggetto di tanta attenzione da parte dei mercati finanziari. In aggiunta, la composizione del debito pubblico era fortemente squilibrata verso il debito a breve (all’epoca chiamato debito fluttuante e dato dalla somma di anticipazioni della Banca d’Italia allo Stato, biglietti di Stato e BOT).

Nel 1924, lo Stato fascista emise un titolo a 25 anni, al 4,75%, con lo scopo di invogliare i detentori di BOT ad una conversione. L’operazione non ebbe successo. Con una lira debole nei mercati valutari e crescenti timori di un possibile consolidamento del debito (oggi lo chiameremmo ristrutturazione), i BOT a scadenza venivano convertiti in circolante. Il livello del debito e la sua corta durata media avrebbero impedito una stabilizzazione monetaria che Benito Mussolini avrebbe poi annunciato nel suo discorso di Pesaro del 18 agosto del 1926. In data 6 novembre del 1926, un decreto legge autorizzò l’emissione del c.d. prestito Littorio che imponeva la conversione in titoli consolidati (titoli senza scadenza come i consol inglesi) dei buoni ordinari, buoni quinquennali e buoni settennali per un valore di 20,5 miliardi di lire che rappresentava oltre un quinto del debito pubblico.

Il consolidamento impartì un grosso drenaggio di liquidità che, a fine dicembre 1927, permise al governo di ripristinare Quota 90 (di fatto 92,46 lire per una sterlina) e la convertibilità aurea. L’Italia pagò il ritorno al tallone aureo alle vecchie parità con una deflazione e alti tassi reali d’interesse (Notare che gli alti tassi di interesse penalizzano, fra gli altri, i vecchi detentori di titoli pubblici che vendono nel mercato secondario ma non influenzano il costo dell’indebitamento sul consolidatole che lo Stato paga). D’altra parte, la struttura del debito pubblico migliorò nettamente. In aggiunta, al decreto sul prestito Littorio fece seguito un secondo decreto che sopprimeva la Sezione autonoma del Consorzio e creava l'Istituto di Liquidazione, entrambi miranti a sgravare lo Stato dal costo dei salvataggi.1 Che lezione possiamo trarre da questo episodio?

Premetto che il giudizio della storia sul consolidamento tende ad essere influenzato dalla valutazione negativa che economisti e storici hanno dato, sulla scia del pensiero di John Maynard Keynes (in particolare The Economic Consequences of Mr. Churchill, 1925), sulla caparbietà della leadership dell’epoca a ripristinare il tallone aureo a parità pre-guerra. Tale politica comportò alti costi economici e sociali connessi con gli effetti della deflazione in un mondo in cui prezzi e salari sono relativamente rigidi. Ma a parte questo, bisogna riconoscere che il consolidamento forzoso del 1926 rappresentò un capitolo nel risanamento del debito pubblico italiano, il cui principale contributo lo dette la sistemazione dei debiti di guerra iniziata nel 1925 e completata poi dalla moratoria Hoover del 1931.

L’Italia di oggi condivide con l’Italia del 1926 il fardello di un imponente debito pubblico; per il resto esistono differenze sostanziali. L’Italia del 1926 era alla ricerca di una stabilità monetaria che intendeva raggiungere con il ritorno al gold standard. Con una sua banca centrale, anche se appena costituita, lo Stato italiano però aveva accesso incondizionato ad un prestatore di ultima istanza. Qualora il vincolo del tallone aureo si fosse manifestato troppo stretto, il governo avrebbe potuto abbandonare i cambi fissi e ricorrere alla sua banca centrale per il finanziamento dei deficit di bilancio (come di fatto fece negli anni Trenta). Infine, una grossa parte del debito pubblico era dovuto a stati esteri che, per effetto della guerra, erano disposti a fare concessioni su tale debito.

L’Italia di oggi, invece, opera in un’area caratterizzata da cambi permanentemente fissi (l’euro-area) e con una banca centrale (BCE) che rappresenta gli interessi non solo dell’Italia ma di una numerosa e eterogenea comunità di stati sovrani. La BCE esercita il ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti del sistema bancario: lo ha fatto durante la crisi dei subprime e lo continua fare oggi. Però non è autorizzata a farlo, per statuto, nei riguardi degli Stati membri. Per riguadagnare questo ruolo, l’Italia dovrebbe o convincere gli altri partner dell’euro-area a cambiare lo statuto oppure uscire dall’euro-area e re-introdurre una moneta nazionale. La prima opzione trova l’opposizione ferrea di alcuni stati membri dell’euro–area, la Germania in primis; la seconda è ostacolata da un forte costo di uscita. Infine, anche se una consistente proporzione (45 per cento) del debito pubblico italiano è detenuto all’estero, a differenza del 1926 i creditori di oggi non sono disposti a fare concessioni.

Un consolidamento del debito pubblico italiano potrebbe rappresentare una valida alternativa a soluzioni di risanamento che richiedono un forte impegno politico dei partner “forti” dell’euro-area, impegno che si scontra con un elettorato reticente nei confronti di una integrazione politico-fiscale dell’euro-area; questo vale tanto per la proposta eurobond quanto per un irrobustimento del fondo salva stati o una BCE accomodante. Il vantaggio di un consolidamento è che sarebbe l’Italia a decidere e non altri Paesi ad impoglierle piani di risanamenti. Una fra le tante varianti di consolidamento potrebbe essere una conversione forzosa di tutti i titoli al di sotto dei 10 anni in buoni del Tesoro decennali emessi o con una cedola fissa che non superi il tasso di inflazione target della BCE o, ancora meglio, con una cedola variabile che si adegui completamente o in parte al tasso ex-post di inflazione.

Indipendentemente dalla formula tecnica adottata, il consolidamento deve soddisfare due obiettivi: il primo è di liberare la politica economica dall’affanno del rinnovo del debito per un lasso di tempo sufficientemente lungo per completare un risanamento; il secondo è di abbassare il tasso di interesse reale sul debito pubblico a valori prossimi allo zero. Un consolidamento comporta un vincolo di bilancio stretto e immediato per il Tesoro. Non avendo più la reputazione per emettere titoli, lo Stato deve gioco forza limitare i flussi di spesa entro i flussi delle entrate (a parte prestiti concessi dalle banche). Questo ebbe luogo anche dopo il 1926 quando lo Stato non fù in grado di emettere BOT per diversi anni.

Considerando il grado di dimenticanza storica dei mercati finanziari nei confronti di stati che hanno ristrutturato i loro debiti, l’imposizione di un vincolo di bilancio forte e l’assenza di nuovi flussi di offerta di titoli pubblici gioverebbero a ridare fiducia ai titoli di stato italiani e a ridurne lo spread nei confronti del Bund entro tempi relativamente brevi, probabilmente entro cinque anni. Non bisogna illudersi che l’operazione sia a costo zero; se lo fosse non ci sarebbe dibattito. I detentori di titoli pubblici, sia in Italia che all’estero, incorrerebbero in una perdita di capitale se decidessero di rivenderli sul mercato secondario.

Lo Stato perderebbe la sua capacità di finanziarsi sui mercati finanziari durante il periodo di non-dimenticanza storica. L’economia soffrirebbe di alti tassi di interesse conseguenti al consolidamento fino a quando i mercati maturerebbero la convinzione che lo Stato italiano è sulla strada giusta per un risanamento duraturo del suo debito. Circa le banche, il tallone di Achille sia della crisi dei subprime che del debito sovrano, il consolidamento non dovrebbe danneggiarne seriamente i bilanci. Le banche che potrebbero utilizzare i titoli di stato a costo di capitale zero e senza accusare perdite di bilancio, purchè il regolatore conceda loro di collocare i titoli nella categoria holding period.

Il mercato, d’altra parte, le penalizzerebbe perché non contabilizza secondo i canoni dell’holding period. In sintesi, il consolidamento ha i suoi costi. Ma questi vanno valutati in relazione ai costi delle alternative. Le possibili soluzioni sono o di agire sugli stock (debito) o sui flussi (deficit di bilancio). I paesi “forti” dell’euro-area, non trovando un accordo su un programma serio sugli stock, “impongono” soluzioni drastiche sui flussi che penalizzano la crescita e le prospettive di un risanamento degli stock. Su quello italiano oggi grava un premio al rischio di 400 punti base, e l’economia non cresce. Il consolidamento del debito va valutato rispetto alle prospettive che si intravedono oggi e non in termini di un improbabile salvatore della Patria.

Michele Fratianni
Università Politecnica delle Marche e Indiana University
Originariamente apparso su firstonline.info

1 commento:

  1. Uno degli aspetti fondamentali per poter analizzare le possibili via d'uscita dalla crisi del debito in Europa è la necessità di poter disporre di una serie di policy options, ognuna delle quali presenti in maniera chiara e definita, per quanto possibile, costi e benefici.
    Se la soluzione paventata è raggiungere il pareggio di bilancio, quali ne potranno essere i costi in termini di crescita potenziale? Quali sono le diverse conseguenze di agire sul lato della spesa o delle entrate? E' davvero realistico pensare a un'expansionary fiscal contraction? Un'eventuale uscita dall'Euro quanto costerebbe? Quali costi comporterebbe per il sistema finanziario e per i detentori di titoli di Stato una parziale ristrutturazione del debito? Esiste davvero un costo di lungo periodo, in termini di costo di finanziamento, dovuto al parziale default o i mercati, come suggerito dall'articolo, tendono ad avere la memoria corta?
    Mi sembra che l'articolo di Michele Fratianni vada nella direzione di esplicitare i costi e i benefici delle possibili opzioni, focalizzandosi su un possibile consolidamento del debito. Non mancano però le difficoltà. Come determinare, ad esempio, quanto in là sia necessario andare per ridurre il debito? Esiste un problema di credibilità: ai mercati sufficiente dimostrare di poter ridurre il rapporto debito/PIL del 20% oppure del 50%? Un'altra scelta riguarda la possibilità di agire sul debito estero o domestico, facendo "pagare" la manovra principalmente ai cittadini residenti o al settore estero.
    Per cercare di orientarsi tra le possibili opzioni sarebbe opportuno guardare a quanto è stato fatto altrove, nel passato più o meno recente. L'esperienza del piano Brady può insegnare qualcosa. Più recentemente, si può guardare all'esperienza della Jamaica, sebbene si tratti di un'economia molto diversa, per livelli di sviluppo, dimensione e struttura economica da quelle europee.
    In Jamaica, nel corso degli ultimi anni, il debito pubblico ha superato il 130% del PIL e la spesa per interessi ha raggiunto il 25% del PIL, determinando una forte contrazione degli investimenti pubblici e della spesa sociale, un rallentamento della produttività e una conseguente stagnazione economica. Nel 2010 il governo, insieme al Fondo Monetario Internazionale, ha implementato un piano di ristrutturazione del debito (Jamaica Debt Exchange - JDX), volto a ridurre la scadenza media del debito domestico e il tasso medio di interesse applicato sui nuovi titoli. Il piano, mirato a preservare la stabilità del sistema finanziario (che possedeva buona parte del debito domestico), ha coinvolto la quasi totalità dello stock di debito eleggibile (il 65% del debito domestico) e si è tradotto in una minore spesa per interessi, nell'ordine del 3% del PIL. Nel complesso, si tratta di una manovra che non risolve completamente il problema, poiché il debito è ancora su livelli elevati che ne mettono a repentaglio la sostenibilità futura (si vedano l'Article IV del FMI e un documento, più critico, del CEPR). Tuttavia, ciò che è rilevante per l'esperienza europea è la possibilità di progettare piani di ristrutturazione il più efficienti possibile.

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