Inizio con tre sì:
- Conviene all’Europa salvare la Grecia?: sì
- Ci sono strumenti per salvarla?: sì
- Si è accumulato troppo ritardo nel decidere e nell’intervenire?: sì.
La chiave di lettura che utilizzo
è il senso di responsabilità che deve prevalere in tutti i leader europei.
Debbono esere consapevoli che il salvataggio finanziario della Grecia coincide
con il salvataggio dell’Eurosistema.
Prima della terapia conviene fare
una corretta diagnosi, che riguarda appunto la attribuzione delle
responsabilità. Le responsabilità della situazione di crisi attuale sono molto
diffuse, possiamo raggrupparle in responsabilità nazionali e responsabilità
collettive.
Le responsabilità
nazionali riguardano i singoli stati membri che hanno accumulato forti
disavanzi di bilancio pubblico, per motivi diversi:
- la Grecia per eccessi di spesa corrente coperti con trucchi contabili adottati dal precedente governo e smascherati dal governo attuale
- l’Irlanda per un modello di sviluppo basato sulla finanza e drogato da bolla speculativa finanziaria
- la Spagna per un modello di sviluppo trainato da bolla speculativa immobiliare
- l’Italia e, in parte, il Portogallo in seguito a prolungata stagnazione dei livelli di sviluppo, che per il nostro paese perdura dalla seconda metà degli anni Novanta ed è stata aggravata dalla depressione conseguente alla crisi finanziaria.
Ne consegue che
la prima terapia da adottare si colloca a livello degli aggiustamenti interni
che ciascun governo di questi paesi debbono adottare. Il rischio da evitare è
la deriva dell’azzardo morale, che spinge i governanti a non ricorrere a
impopolari politiche di rigore, nella speranza di essere comunque salvati con
l’aiuto finanziario esterno sulla base del principio del “too big to fail”. Il migliore antidoto contro questo ricatto dei
paesi che puntano a rinviare gli aggiustamenti interni è il regime di
amministrazione controllata esterna al quale vengono sottoposti dalla Commissione
europea, su mandato del Consiglio europeo e dell’Ecofin, e dalla BCE. Il rigore
imposto dall’esterno, condizionato all’erogazione di prestiti, comporta una
perdita di sovranità e di prestigio per i governi nazionali. Vedasi in
proposito la lettera della BCE inviata al governo italiano. Va anche detto che
un governo debole può trovare nei condizionamenti esterni l’alibi per imporre
provvedimenti che altrimenti non avrebbe avuto la forza politica di imporre. I
governi italiani hanno fatto uso ricorrente al demiurgo esterno per adottare
provvedimenti di rigore. Su questa filosofia negli anni Novanta si è impostata l’azione
di adeguamento ai parametri di Maastricht per ottenere l’ammissione all’euro.
Lo stesso vale in questo periodo di crisi in cui il governo italiano segue la
strategia di farsi imporre le manovre restrittive dall’Europa. Allora lo slogan
ricorrente era “dobbiamo entrare nell’Euro”, oggi è “i vincoli restrittivi ci
vengono imposti per restare nell’euro”.
Le
responsabilità collettive vengono chiamate in causa dalla crisi finanziaria
globale, che ha messo in moto un complesso processo di interdipendenza delle
cause e degli effetti, che richiedono interventi convergenti di più paesi. Si è
attivato un circolo vizioso che ha fatto rimbalzare i rischi tra i governi, che
sono intervenuti a sostegno delle banche, e le banche, che hanno acquistato i
titoli pubblici in presenza di debiti sovrani crescenti. In questo circuito si
è inserita la Banca Centrale Europea con interventi non convenzionali di acquisto
di titoli pubblici greci e italiani, per contenere gli spread rispetto ai
titoli tedeschi.
Il problema da
risolvere è come uscire da questo circolo vizioso destabilizzante e con quali
strumenti.
1. Non si può contare sulla partecipazione protratta nel
tempo della BCE come prestatore di ultima istanza. Gli interventi non
convenzionali della BCE sono utili, ma non risolutivi. Sono misure tampone che
alla lunga presentano forti controindicazioni che possono incrinare la
credibilità della BCE, per una assunzione eccessiva di rischi finanziari e per il
mancato obiettivo del controllo della inflazione a causa degli effetti
inflattivi che un eccesso prolungato di liquidità produrrebbe.
2. La dichiarazione di insolvenza della Grecia è una
soluzione con forti controindicazioni che non possono essere sottovalutate. Va
messa in conto la stessa possibilità di sopravvivenza dell’Eurosistema. Questo
perché la speculazione internazionale verrebbe stimolata a moltiplicare gli
attacchi contro gli altri paesi deboli, come sta già avvenendo nei confronti
del debito pubblico dell’Italia, che rappresenta poco meno di un quarto del
totale debito pubblico europeo. L’uscita di paesi membri dall’euro comporta
forti oscillazioni nei tassi di cambio. Il ripristino delle monete nazionali si
accompagnerebbe alla svalutazione a due cifre rispetto all’euro con conseguente
alta inflazione, alimentata anche dagli elevati menu cost tipici del cambio di
moneta (nuovi listini prezzi, adattamento delle macchine automatiche di
distribuzione, ecc…).
3.
Se si prende atto che vi sono elevate barriere
all’uscita di uno o più paesi membri da un sistema a moneta unica, per le
sudette controindicazioni, la riflessione va portata sulla necessità di
mantenere elevate barriere all’entrata. La recente esperienza insegna che la
selezione all’ingresso di paesi membri nell’euro doveva essere più rigorosa. La
Grecia è stata ammessa come dodicesimo membro soltanto un anno dopo l’avvio
dell’euro, ma poteva ancora aspettare per portare a termine il processo di
adeguamento ai parametri di Maastricht. L’Italia venne ammessa nel primo gruppo
di avvio, ma con un rapporto debito/PIL del 120%, in forte deroga rispetto al
parametro del 60% stabilito nel Trattato di Maastricht. L’idea accettata dai
partners europei era che fosse sufficiente un graduale declino del rapporto,
grazie al concorso di tre fattori: il rigore fiscale del governo italiano
mirato a mantenere un saldo primario positivo nei conti pubblici, il benefico
effetto della riduzione del livello del tasso di interesse sulla spesa
corrente, il mantenimento di un adeguato livello di sviluppo. I primi due
fattori avrebbero contribuito a ridurre il numeratore del rapporto, il terzo
avrebbe agito positivamente sul denominatore. Dopo alcuni anni di virtuoso declino
del rapporto debito/PIL, la crisi iniziata nel 2007 ha determinato l’inversione
di tendenza, sia per l’aumento del debito sia per la riduzione del tasso di
sviluppo, che comunque si era mantenuto a livelli insoddisfacenti per tutto il
decennio. Risultato: siamo tornati al punto di partenza con un debito/PIL al
120%, ma in una situazione di progressiva sfiducia dei mercati sulla
sostenibilità del debito.
4. La soluzione dell’incremento di patrimonializzazione
delle banche più esposte alla crisi
greca e italiana non è facilmente praticabile. Gli aumenti di capitale non
possono essere sottoscritti dai governi, per non alimentare ulteriormente il
circuito vizioso del passaggio dei rischi banche-governi-banche-governi sopra
descritto. D’altro canto la soluzione del ricorso al mercato appare
problematica in presenza di scarsa redditività delle banche e di una perdurante
crisi di fiducia dei mercati nei confronti delle azioni bancarie, che sono
fortemente sottovalutate.
Le soluzioni che
a mio parere sono più praticabili e, nello stesso tempo, più promettenti per
consolidare la stabilizzazione dell’Eurosistema vanno nella direzione di un
convinto rafforzamento del processo di integrazione europea, con il progressivo
avvio di un governo federale sovranazionale che agisce con sufficiente
autonomia e flessibilità nell’interesse collettivo.
I passi da
compiere a tale scopo sono i seguenti:
1.
Attuare l’aumento sostanziale del fondo di stabilità
europeo, che viene erroneamente chiamato fondo salva-stati dando l’immagine
di un prestatore di ultima istanza che alimenta l’azzardo morale dei governi
indisciplinati. La dotazione del fondo va almeno quadruplicata, fino al livello
di 2000 miliardi di euro. L’aumento non deve essere a carico degli stati
membri, per non aggravare ulteriormente i loro debiti pubblici. La soluzione
più promettente è il ricorso al mercato mediante emissione di Eurobonds. Questi
titoli vanno ad incidere non sul debito di singoli stati ma sul livello medio
del debito pubblico europeo. Quindi i mercati hanno la prospettiva congiunta
non solo dei debiti dei paesi meno virtuosi ma anche di quelli più virtuosi.
Soprattutto si apre la strada all’acquisizione di risorse a livello
sovranazionale a fini di stabilizzazione collettiva. Il fondo di stabilità
potrebbe intervenire a sostegno di singoli stati membri in difficoltà meglio di
quanto possa fare la BCE con la politica monetaria che deve essere unitaria e
indipendente. L’avvio di un governo fiscale europeo con capacità di finanziamento
autonomo offrirebbe la migliore garanzia agli Eurobonds. Nell’attesa che ciò si
realizzi la soluzione di offrire garanzie facendo leva sulle riserve auree
delle banche centrali dell’Eurosistema, proposta da Prodi e Quadrio Curzio,
sembra promettente e prontamente realizzabile.
2.
Una altra soluzione necessaria e attuabile è la
revisione degli obiettivi di Maastricht, per adattarli alla situazione
attuale. In particolare dovrebbe essere rivisto l’obiettivo che pone il
rapporto debito/PIL al livello del 60%. Questo obiettivo venne stabilito agli
inizi degli anni Novanta, come media dei rapporti dei singoli paesi europei e
in un quadro internazionale che offriva migliori prospettive di crescita e di
stabilità rispetto alle attuali. Per effetto della crisi internazionale nella
situazione attuale il valore medio è salito a circa l’85%. La stessa Germania
ha un debito sul PIL che supera l’80%. Pertanto sarebbe saggio adattare
l’obiettivo medio europeo al livello attuale, maggiore rispetto a quello
stabilito a Maastricht. Si otterrebbero due risultati. Si allenterebbe la
pressione speculativa sui paesi fuori linea e la sfiducia sulla loro
possibilità di rientro. In secondo luogo, si avrebbe una pressione meno
restrittiva a vantaggio della ripresa dei tassi di sviluppo nell’Eurosistema.
3. Fare sviluppo deve diventare l’obiettivo europeo
prioritario, per superare o almeno attenuare il prevalente orientamento
restrittivo dettato dalla necessità di rigore fiscale. In breve occorre agire
con determinazione sul denominatore del rapporto debito/PIL. In questa ottica assume
rilievo la responsabilità dei paesi in surplus negli scambi interni
all’Eurosistema, in primis la Germania. Buona parte della competitività di
questo paese è legata all’avere beneficiato di un cambio interno in euro
(quindi con rapporto 1 a 1) fortemente sottovalutato rispetto al livello del
tasso di cambio che il marco avrebbe raggiunto in presenza delle monete
nazionali e che raggiungerebbe se alcuni paesi, tra questi Grecia e Italia,
uscissero dall’euro. A fronte di questo vantaggio, la Germania dovrebbe
assumersi la responsabilità di svolgere il ruolo di locomotiva, aumentando la
domanda interna e, di conseguenza, aumentando le importazioni dagli altri paesi
europei. Questa politica espansiva è resa possibile sia dal maggiore potenziale
di sviluppo che il surplus esterno consente alla Germania sia da una situazione
attuale che non è inflazionistica. Si tratta di una soluzione già auspicata da
Keynes come exit strategy dalla grande depressione degli anni trenta. In
presenza di crisi depressiva non inflazionistica spetta ai paesi in surplus
l’onere dell’aggiustamento espansivo internazionale. Questa regola andrebbe
promossa e applicata all’interno dell’Eurosistema.
4.
La soluzione principale, che però richiede tempi di
attuazione ancora lunghi, è il rilancio del processo di integrazione europea,
del quale la realizzazione della unificazione monetaria ha rappresentato solo
un primo passo: un primo passo importante, compiuto contro le regole che nella
teoria e nella storia prevedono la istituzione della moneta unica dopo aver
realizzato l’unificazione politica. La deroga si rese necessaria nel contesto
storico degli anni Novanta, come mossa strategica per rafforzare l’unione
europea in presenza di rischi di scollamento dovuti al crollo del muro di
Berlino e alla riunificazione delle due Germanie. L’obiettivo della unione
monetaria è stato utilizzato come catalizzatore di una futura unificazione
politica suggellata da un governo europeo sovranazionale. La crisi ha messo in
evidenza la necessità di procedere in questa direzione con decisione.
Soprattutto in presenza di realtà territoriali molto differenziate alle quali
la politica monetaria unica non può dare risposte in termini di riequilibrio.
Occorrono risorse fiscali indirizzate verso i territori in difficoltà di
sviluppo, come del resto avvenne nella unificazione monetaria tedesca che
comportò una migrazione di popolazione dalla meno sviluppata Germania dell’Est
verso la Germania dell’Ovest e in senso opposto flussi finanziari pubblici per
attenuare i divaridi sviluppo e con essi i flussi migartori interni.
In conclusione,
le crisi mettono in evidenza le fragilità istituzionali e, come sta avvenendo,
la crisi attuale mette a dura prova la fragilità istituzionale della Unione
Europea. Se ne esce in due modi:
1.
lasciando crollare le istituzioni europee, con la
spinta sostanziale che verrebbe dall’uscita della Grecia e dal progressivo
sgretolamento dell’Eurosistema. In tal modo si annullerebbe il cammino
pluridecennale che ha portato pace e stabilità nello spazio europeo, anche se in
presenza di ritardi, scollamenti e difficoltà nel procedere alla rinunzia a
dosi crescenti di sovranità nazionale
2. oppure impegnandosi a rafforzare le istituzioni con la
progressiva affermazione di un governo federale europeo in grado di manovrare
risorse fiscali proprie, nell’interesse collettivo di un’area che, nonostante
sia ad alto livello medio di sviluppo, sarebbe destinata a inevitabile declino
se si presenta divisa in singoli piccoli stati per fronteggiare le sfide della
globalizzazione.
Delle due credo ci siano ragioni sufficiente
che giustificano la preferenza per la seconda soluzione. Ed è per questo che
credo convenga all’Europa “salvare” la Grecia, imponendole un finanziamento con
aggiustamento graduale e sostenibile dei propri squilibri.
Pietro Alessandrini - Università Politecnica delle Marche
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