Una riflessione sul salvataggio della Grecia consente di
interrogarsi sugli strumenti economici e soprattutto politici per intervenire
anche sulla attuale situazione dell’Italia e dell’Europa nel suo complesso.
Sembra opportuno andare alle radici del male della Grecia,
di quel male che oggi appare esploso in modalità così estreme e difficili da
trattare. Certo, ci sono stati conti truccati e informazioni non corrette
ufficialmente trasmesse agli organismi economici internazionali. Ma non è
secondario cogliere i segnali che fin dal 2000, anno in cui la Grecia fu fatta entrare
nell’euro, col senno di poi incautamente e frettolosamente, non sono stati
adeguatamente interpretati e affrontati, in modo da evitare il conflagrare
della crisi.
Si pensi alla evasione fiscale pari ad oltre 30 miliardi su
270 di PIL, alle disinvolte forme di assistenza previdenziale addirittura per
le figlie nubili dei dipendenti della pubblica amministrazione, alla spesa
senza copertura in occasione delle Olimpiadi, agli oltre 200 miliardi in titoli
esportati da greci attraverso il meccanismo diretto e indiretto dell’evasione,
come recentemente stimato dalla Unione delle Banche Svizzere.
Dall’altra parte, occorre riscontrare il limite nella
sorveglianza esercitata dagli organismi soprattutto a livello comunitario (BCE
e Commissione in primis), in ordine alla coerenza dei singoli Stati membri
rispetto agli impegni assunti con l’adesione all’euro. Fra il 2000 ed il 2010
non hanno funzionato adeguatamente gli organi di vigilanza, controllo ed
indirizzo. Dovremmo quindi interrogarci sul (mancato) funzionamento di tali
organismi nel recente passato, e sulla opportunità di proseguire nell’ulteriore
allargamento dell’euro ad altri Paesi e sistemi socio-economici, sicuramente
non più organizzati di quello greco. In altre parole, cautela e prudenza
sembrano ora ancor più opportune, visto il pericolo di potenziale replica degli
errori e delle omissioni verificatisi.
A posteriori colpisce soprattutto l’inerzia registrata nel
mettere in campo le soluzioni. Stime dell’inizio del 2010 facevano ammontare a
20 miliardi di euro la necessità di intervento pubblico per sanare la situazione
greca; a luglio 2011 la stima è passata a 172 miliardi e le ultime valutazioni
dicono che ne serviranno 220. La velocità nella predisposizione ed attuazione
degli interventi è fattore cruciale: prova ne siano i timori per il rischio di
un effetto domino e la preoccupazione di Obama, dall’altra parte dell’Oceano,
per una crisi finora circoscritta alla vecchia Europa.
Occorre individuare quali sono i strumenti a disposizione
nell’affrontare la crisi. Certo la strumentazione passa per una riduzione della
spesa pubblica, ma anche per una politica fiscale e redistributiva, nonché per
un ventaglio di azioni a sostegno della infrastrutturazione (reti telematiche
energetiche) e alla politica industriale. L’obiettivo è consentire e stimolare
una nuova produzione di reddito, in grado di risollevare il denominatore (il
PIL, appunto) rispetto al quale si calcolano gli indici, consentendone il
miglioramento.
Si è parlato, anche nell’intervento di Luca Papi, di EFSF,
di Euro bond, di Project bond e infine degli strumenti proposti da Prodi e
Quadro Curzio, denominati Euro Union bond. Gli EFSF evolveranno dal 2013 in European mechanism (o fondo salva
stati). Gli Euro bond si basano sulla garanzia pro quota in relazione al peso
dei debiti verso le agenzie. I Project bond finanzieranno anche infrastrutture
di rete con coinvolgimento di capitale privato garantito. La proposta di Prodi
e Quadro Curzio si posizionerebbe attorno ai 3000 milioni invocati oggi anche
da Sarkozy e da Merkel, ripartiti in circa 2300 destinati alla copertura dei
titoli di stato e circa 700 per le infrastrutture, con la caratteristica
peculiare della garanzia in oro da parte degli stati.
Quali i problemi sul tappeto? Innanzitutto l’egoismo degli
stati e il nazionalismo, con la conseguenza che ogni ritardo aggrava il costo
dell’operazione. L’Italia, vicina alla Grecia e accomunata nei GIPSI, si trova
a scontare un differenziale nei propri titoli di stato rispetto al Bund tedesco
che è passato in pochi mesi da 100
a oltre 380 punti base: l’inerzia nell’intervento
europeo, compreso quello italiano, ha fatto evaporare la manovra finanziaria di
un anno, pari a circa 25 miliardi.
Mi è stato chiesto di considerare le conseguenze che può
avere la crisi greca sul sistema pubblico, soprattutto a livello territoriale.
Le conseguenze dirette sono poche, ma quelle indirette sono tantissime e
immediate. In primo luogo il costo della provvista finanziaria aumenta fino
alla neutralizzazione intere manovre nazionali, come già detto. Ci sono però
anche effetti a cascata sul Patto di stabilità interno, con la contrazione
delle risorse a disposizione dello Stato ordinamento, composto anche da
Regioni, Province e Comuni, che costituiscono una importante componente della
domanda aggregata: ciò comporta il rischio di innescare un’incontrollabile
spirale recessiva.
Fornisco solo alcune cifre sul taglio delle risorse
finanziarie e sull’aumento delle entrate tributarie a valere sul sistema
pubblico: 25 miliardi di euro lo anno scorso, nello scorso luglio 47,9
miliardi, ad agosto altri 54 e la specificazione della rete di stabilità ne
richiederà ulteriori 10.
La BCE,
tanto criticata in questi mesi, in realtà svolge il proprio dovere: non
dimentichiamo che è nata per garantire la stabilità monetaria, non per
perseguire il secondo pilastro, quello volto al versante fiscale e dello
sviluppo economico. La lettera di Draghi e Trichet è necessaria ma non
sufficiente sul versante del sostegno allo sviluppo di fronte alla crisi: la
risposta alla crisi in termini di rilancio dello sviluppo non rientra fra le
ipotesi di intervento cogente da parte della BCE. La BCE si occupa di lotta
all’inflazione, ma non è legittimata a dare indicazioni sulle politiche per la
crescita. Manca, in altre parole, il governo della politica.
E’ emblematica la recente lettera di Keitel, Parisot e
Marcegaglia, ossia i presidenti tedesco, francese ed italiano di Confindustria,
in cui congiuntamente si chiedono interventi di sostegno all’euro come
principale via per proseguire nella crescita. Ciò appare tanto più inedito e
responsabile per l’esperienza italiana prima dell’euro, quando la periodica
svalutazione della lira consentiva di sostenere la competitività.
Occorre dunque un governo politico della crisi, che
affianchi la BCE
sul versante della crescita. Si tratta appunto di quella funzione regolatrice
dello Stato e di sostegno allo sviluppo economico, che compete allo Stato.
Vorrei però evidenziare una anomalia che è oggettiva. Dexia
è stata risanata con 150 miliardi di euro pochi anni fa, oggi ne servono altri
100. Colpisce, da un lato, la sollecitudine di intervento in favore delle
banche e, dall’altro, il ritardo delle politiche solidaristiche - seppur
condizionate - alla Grecia. Così facendo, tuttavia, dai 20 miliardi di euro
necessari a gennaio 2010 si è giunti a 220.
Rilevo il pudore dei professori Alessandrini e Fratianni di
non aver discusso la loro recente proposta di una moneta di scambio
internazionale, ineludibile per garantire un contesto di stabilità finanziaria
basata su scambi internazionali regolati con una moneta affidabile. Il potere
monetario internazionale oggi resta centrato sugli Stati Uniti, in un regime di
cambi ancora basato sul dollaro, in cui la Cina è coinvolta come Paese dalle ampie riserve
finanziarie messe a disposizione delle economie più sviluppate e più
indebitate. Richiamo allora le tesi di Keynes nel 1944 a Bretton Woods che
contro il delegato USA, White, cercava di far adottare una moneta unica(bancor)
ponderata proporzionalmente sui PIL dei paesi aderenti all’accordo. La tesi
vincente risultò però quella americana, con il dollar standard. La proposta di un nuovo Bretton Woods è oggi
basabile,secondo la proposta citata, sulle quattro principali monete: il
dollaro, l’euro, lo yen e lo yuan, corrispondenti alle quattro aree mondiali di
riferimento economico. A questo nuovo sistema monetario si dovrebbe affiancare
un nuovo Piano Marshall per lo sviluppo, articolato sull’energia, la
telematica, le infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali ed aeroportuali,
ed un nuovo WTO, in grado di offrire nuove regole per il commercio
internazionale.
Di recente si è parlato insistentemente della opportunità
della tassazione sulle rendite finanziarie e sui patrimoni, rifacendosi
all’antica proposta di David Ricardo. In effetti il secondo pilastro era già
presente nel “Libro Bianco” di Jacques Delors: la politica monetaria e quella
economica, l’utilizzo delle leve retributive, contributive e dei grandi
investimenti infrastrutturali richiedono scelte condivise ed omogenee.
Di austerity in austerity si rischia di morire. Occorre
invece utilizzare il rigore finanziario affiancato da una selezionata leva
fiscale finalizzata allo sviluppo, ma anche alla equità. Sono stati infatti
rilevati processi fortissimi di accumulazione e concentrazione della ricchezza,
con un travaso di oltre il 15% dal fattore lavoro a favore del capitale,
secondo la Banca
d’Italia in meno di 20 anni. E’ necessario ridistribuire il peso della crisi,
pena una pericolosa spirale recessiva. Per far questo, è indispensabile agire
su un allargamento della strumentazione che metta al centro il fisco.
David Ricardo e il liberale Luigi Einaudi per dinamizzare
il mercato, hanno sostenuto con forza la necessità di incidere sulle rendite
finanziarie e sui patrimoni inutili, anziché solo sul lavoro. In Italia sembra
ancora un tabù e, va ricordato invece che i lavoratori in Italia rappresentano
il 50% dei contribuenti ma l’80% del gettito.
L’attualità della situazione della Grecia offre quindi una
opportunità di riflessione anche sull’Italia: la ricetta che riporterebbe in
auge lo stato minimo ed il darwinismo sociale rischia concretamente di bloccare
in una ragnatela le possibilità di ripresa e di sviluppo.
Si esce dal debito soltanto se il denominatore, ossia il
PIL e dunque lo sviluppo, torna a crescere alle difficili ed impegnative
condizioni richiamate: la politica e l’economia alleate
e non in esclusione reciproca.
Pietro Marcolini - Assesssore, Regione Marche
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